#SpazioTalk, Paolo Simion: “Torno a fare sia strada sia pista. In Italia manca programmazione con i giovani”

Paolo Simion si racconta ai microfoni di #SpazioTalk, il podcast di SpazioCiclismo. Il veneto è intervenuto nel corso della puntata di questa settimana per spiegare la sua scelta di passare alla Giotti Victoria-Savini Due l’anno prossimo, dopo l’esperienza in Cina di fatto mai avviata, e per parlare della sua esperienza di corridore e studente universitario, laureatosi a settembre in scienze motorie. Il classe ’92, che in carriera vanta già cinque anni di professionismo in una Continental Professional con la divisa della Bardiani-CSF, ha anche parlato dell’ultima stagione, del suo cambio di modalità nel fare gli allenamenti e della situazione del ciclismo italiano nell’intervista completa, che riportiamo.

Hai annunciato di recente il tuo ritorno in Europa dopo l’esperienza con la Tyanoude. Per te è importante tornare nel nostro continente con un progetto stimolante come quello della Giotti Victoria-Savini Due?
Senza dubbio. La squadra in Cina era stata trovata all’ultimo, perché la Bardiani mi aveva comunicato il mancato rinnovo a ottobre. Quindi per me non era stato un ripiego, ma comunque un tentativo di provare qualcosa di nuovo. In carriera ho corso diverse volte in Asia e mi sarebbe piaciuto correre lì. Il Covid quest’anno ha stravolto i piani e ho dovuto cambiare. Per fortuna ho avuto quest’opportunità tramite Giuliani, perché tanti corridori sono rimasti a piedi. Ci tenevo molto a riuscire a tornare a fare un calendario qui, nel nostro ciclismo. Da tre mesi ho anche ricominciato a girare su pista con la nazionale, quindi mi serviva essere in Italia. Ricominciare a coltivare il binomio strada-pista mi dà molta gioia.

Il tuo ruolo nella formazione sarà sicuramente cercare di aiutare i giovani, ma anche andare all’attacco per ottenere successi personali?
Penso di sì. Finora a causa del Covid siamo riusciti soltanto a fare riunioni su Skype e Zoom, ma penso che in linea di massima sarà così. Per me è una sfida personale, anche trasmettere ciò che ho imparato in questi anni ai corridori più giovani. Per me l’importante è non partire subito con l’idea di vincere a tutti i costi, ma di creare una squadra. Se si riesce a creare una squadra in cui si avvia un buon meccanismo, poi tutti ne traggono beneficio. Quando gli ingranaggi vanno bene, gira bene per tutti e ogni membro della squadra riesce a togliersi delle soddisfazioni, migliorando prestazioni che magari fino a quel momento potevano esserci fisicamente ma non sempre mentalmente. In una squadra in cui tutti lavorano per chi sta meglio, i risultati arrivano. I team che creano più gruppo sono sempre quelli che alla fine riescono a fare vittorie e a ottenere i risultati migliori. Quindi il mio primo obiettivo è fare gruppo, poi anche vincere, sicuramente.

Parlaci un po’ dell’esperienza di quest’anno. Per te è stato un anno di stop per la carriera o un’opportunità per rilanciarti?
Pur non facendo gare, mi sono allenato sempre. Ho fatto circa 25.000 chilometri quest’anno in bicicletta. Sebbene le cose siano andate così, non puoi mollare. Questo è uno sport in cui se molli troppo è difficilissimo tornare sui ritmi che contano. Quest’anno ho sistemato alcuni problemi che mi portavo dietro dall’anno scorso: ero caduto a Modena e ho sentito dolore alla gamba praticamente fino a maggio. Quindi ho dovuto lavorarci parecchio tempo per sistemare i problemi all’anca. Poi mi sono sempre tenuto pronto: prima si pensava di ripartire a maggio, poi a luglio, in seguito a settembre e infine la stagione è finita. Di fatto mi sono preparato quattro volte quest’anno.

Ho cambiato completamente allenamenti, con gli studi che ho fatto ho provato a cambiare protocolli. Comunque sia, per provare a cambiare ciò che ho fatto finora dovevo farlo anche come allenamenti. Ho quindi inserito ciò che avevo perso negli ultimi anni, come il fuori soglia e lo spunto veloce. Facendo il Giro d’Italia e le gare lunghe si lavora tantissimo sul fondo, ma si perde l’altra componente. Ho preso 3-4 chili rispetto all’anno scorso anche perché le gare in Cina prevedevano percorsi molto diversi a quelle europee, ma sono riuscito a recuperare 300 watt nel picco massimo di forza. Ho fatto con criterio ciò che mi serviva e ho raggiunto i miei obiettivi, sapendo che si sarebbe corso poco. La mia vittoria quest’anno è stata fatta.

Vittoria sia in termini di allenamento sia a livello personale, perché a settembre ti sei laureato in scienze motorie. Che cosa consiglieresti a un giovane ciclista che arriva alle porte del professionismo e spesso deve fare una scelta tra il puntare solo sul ciclismo e tenere aperta un’altra strada?
Io personalmente avevo finito la scuola superiore a 19 anni e ho iniziato subito con l’università. Mi sono iscritto a Ingegneria Chimica a Padova, ma sono durato sei mesi. Il problema è che le università statali non hanno ancora didattiche a distanza che permettono di frequentare anche se non sei sul luogo. Quindi nel 2011 ho dovuto sospendere gli studi. In sei mesi avevo dato tre esami, ma non riuscivo a dare gli altri perché le sessioni erano sempre in concomitanza con impegni sportivi a cui non potevo rinunciare. Dopo quattro anni, Simone Velasco mi ha parlato dell’opportunità delle università telematiche. Mi sono informato e mi sono trovato benissimo. Hanno una didattica completamente diversa, che per gli sportivi permette di fare al meglio il proprio lavoro e portare avanti il percorso universitario. Si hanno i file che si possono studiare in treno e in aereo. Quando ti mandano a correre in Asia o in America hai un sacco di tempo libero negli spostamenti. Io quindi mi ritagliavo le mie due orette al giorno in cui, invece di stare al cellulare a scrollare Instagram, mi leggevo i file. Quindi in tre anni giusti sono riuscito a finire tutto.

Nel ciclismo la componente psicologica è fondamentale. Se si può fare qualcosa che sia di evasione e possa dare una certificazione per il futuro, ma anche accrescere la cultura, è bellissimo farlo. Ci sono periodi belli e brutti nel ciclismo: in quelli belli è tutto facile, ma in quelli brutti devi imparare a tenere duro. Per quanto difficile, ti dà moltissima soddisfazione. Poi da un punto di vista lavorativo, il ciclismo non è uno sport che puoi fare fino a 60 anni, quindi studiare permette di costruirsi un futuro anche fuori dall’ambiente.

Parlando di ciclismo italiano, quanto si sente l’assenza di una squadra World Tour nel circuito?
Secondo me è un po’ triste, perché qui abbiamo un bacino d’utenza elevatissimo rispetto ad altri Stati. E poi il livello medio dei corridori che abbiamo qua è molto molto buono. Il problema è che non essendoci squadre di riferimento World Tour si rischia di creare una sorta di professionismo già nelle categorie juniores. Più avanti ci sono sempre meno posti, quindi si sceglie i campioni già da piccoli: corridori che magari a 18 anni volano già, ma per quanto lo possono fare? Poi c’è anche l’aumento di professionalità in un’età in cui non tutti la possono avere. È una pratica che può portare all’abbandono precoce. Invece bisognerebbe creare un progetto solido, con una squadra World Tour come faro, con programmi non di un anno, ma di tre o quattro, per far sviluppare ai corridori determinate caratteristiche e costruirli bene per un futuro in cui farli andare fortissimo.

Per esempio, Ciccone da juniores andava bene, ma non era il migliore. Adesso però è proprio un fenomeno. Da junior in pochi avrebbero pensato che potesse raggiungere questo livello. È cresciuto bene, con il tempo giusto e nel modo giusto. Questo però valeva 7-8 anni fa. Adesso chi non va forte da junior spesso non trova squadra neanche da junior. Secondo me, se ci fossero un paio di squadre World Tour qua, ci sarebbe un progetto. È quello che permetterebbe di avere un panorama di corridori più ricco di quello che abbiamo qui. C’è un problema di programmazione. A 18 anni c’è chi ha la barba fatta e chi non ha neanche mezzo pelo, anche come sviluppo fisico qualcuno cresce prima e qualcuno dopo. Con la resistenza, cambia molto anche il discorso mentale. Correre 3-4 ore è un conto, ma quando da professionista vai sopra le 5 le cose cambiano. E l’aspetto mentale qui conta molto. Ci vogliono tante qualità, non solo quella fisica e i watt in salita.

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